Descrizione
Fatiha Morchid ci regala con questo libro, Fogli innamorati, uno splendido, sgargiante canzoniere d’amore diviso in quattro parti, come gli atti di un’opera lirica; il teatro si offre infatti come il paragone più giusto e preciso a designare la struttura drammaturgica di un poeta-personaggio che possiede nel suo canto la sua alta capacità di strazio parlando, si potrebbe dire, per bocca altrui, con la consapevolezza cioè che il sentimento più esclusivo e patetico è nello stesso tempo, in quanto condiviso nel tempo e nello spazio da chissà quanti altri, quello vestito e travestito in vari personaggi, e la parola vergine è anche quella più usata da altri prima di noi: noi non siamo padroni del nostro linguaggio, insomma. Lezione di profonda umiltà che ci viene appunto dalla poesia, da questa poesia di Fatiha Morchid in particolare.
Tutto questo coincidere fra esistenza e retorica, vita e letteratura, diventa tipico della grande poesia d’amore. A questo proposito, mentre leggevo con ansia e ingordigia i versi di Fatiha Morchid e ne ammiravo l’asciutta scansione, mi venivano in mente i versi di un grande artista italiano del Rinascimento, i versi di Michelangelo Buonarroti, quando chiudeva una sua poesia con questa domanda legata al mistero dell’amore e ai suoi effetti sul soggetto: «Come può esser ch’io non sia più mio?» Ebbene, questo spossessamento del soggetto riguarda non solo esistenzialmente il poeta d’amore, che vive «la soave malattia» come la chiamava Platone quasi straniandosi da se stesso, vivendo d’altra vita, come spesso si dice, ma anche o soprattutto retoricamente il suo linguaggio, fatto di parole che sono state tutte quante adoperate prima e che trasformano la materia rovente e dura d’angoscia dell’esperienza amorosa in «teatro di affetti», repertorio di tensioni, slanci, riposi.
Ecco quindi il senso di quel soggetto che non è più solo se stesso, ma è anche altro, personaggio che traveste il suo corpo d’altre vite, come fa qui l’autrice di questi meravigliosi Fogli innamorati, che sembra essersi impossessata degli accenti e delle parole più varie, appartenute a grandi poeti del passato, a Saffo, Omero, Michelangelo, fino ai più moderni, ed essersi legata indissolubilmente a questi echi che ritornano in varie prospettive e fanno sì che anche quando si abbia a che fare con quanto di più irriducibilmente unico ci sia, il sentimento d’amore appunto, in fondo non si faccia che ritagliare il linguaggio degli altri.
Fatiha Morchid è maestra di questo, e diventa difficile sottrarsi ai suoi sortilegi, tant’è vero che mi sono arreso ad un certo punto a questa sua piena capacità di strazio e canto, sono entrato dapprima timidamente poi sempre più fatto ardito in questa finzione acuta e arguta, vivace e dolorosa insieme, e sono così diventato anch’io personaggio fra i personaggi, attore insieme ad altri attori. «Inciampo nel lembo della notte/ delle cifre del corpo ho la mia veste/ che mi ripara/ dal tuo vento/ O stella svanita.»
Mi sono trasformato e finto nel ruolo di destinatario delle cifre amorose, come ogni lettore di poesia lirica dovrebbe fare, e ho come dire «vissuto» questa retorica, sentito la sua artificiosa bellezza, il suo battere fugace di ali di farfalle, come nella sezione del libro apposita. Ho così partecipato come quel lettore descritto da Borges al patrimonio del testo, alla sua «scrittura», e chissà se un giorno, quando la potente suggestione di questi versi si sarà ben ficcata dentro di me, io non possa rispondere con altri versi ed entrare nello spazio di questo teatro col mio tessuto di parole a rispondere al loro gioco e giogo meraviglioso.
Giacomo Trinci