Descrizione
Sassofonie e Sassifraghe, titolo scelto da Antonio Colandrea per questa sua silloge, muove forti nonché contrastanti suggestioni e preannuncia una poetica centrata su temi tanto più impegnativi, anche eticamente, quanto più difficile è la ricerca di un pur precario equilibrio lungo il crinale delle antinomie esistenziali. Data la materia, è rischioso tentare interpretazioni psico-sociologiche – che osservatori individuali del vissuto rendono difficilmente generalizzabili – o cedere a banalità da “amarcord”. L’Autore invece, in uno stile riconoscibile ed efficace, segue la via del poeta che vive il suo tempo e cerca di interpretarlo grazie al “grimaldello” poetico, offrendo in versi un’ampia gamma di “casi” significativi in cui il lettore potrà trovare le proprie chiavi di lettura o ritrovarsi.
In estrema sintesi, la filigrana di momenti e moventi nativi che s’intravede nella silloge è riconducibile a pulsioni che: da un lato, additano all’io poetante itinerari introspettivo-memoriali; dall’altro, giungono dal mondo esterno e, in particolare, da una condizione umana vista nella quotidianità dolente e spesso drammatica; infine, inducono ad una sorta di “ping pong” dagli incerti esiti tra l’io e l’altro da sé.
Ripartire esattamente l’insieme dei testi, cristallizzandone l’appartenenza all’uno o all’altro dei tre nuclei tematici anzidetti, non è agevole; né è da ritenere necessario considerandone il fecondo e ricorrente “mix” nel crogiolo creativo dell’Autore che sa come fare leva sul ribollire di dubbi irrisolti e di ricordi più o meno acuti o rimossi.
Nel primo caso ansie e tormenti dell’io pervadono molte liriche: “Appannamenti”, con versi che, in chiusa, vibrano del «[…] quesito insano | se basti dare tutto quanto ho dato | o se non abbia avuto in dono invano | ben altre ali | che non ho mai usato»; “Ambivalenze”, dove l’io perplesso va così soliloquiando: «[…] Non è però normale | star sempre nello specchio a speculare | su ciò che nel sognare dà sollievo | e invece nel reale dà dolore […]»; oppure “Oblomov” con contorni di moderna ignavia da estrema perdita dei valori che inducono a cercare «[…] un modo alternativo di morire | di non agire | di subire per panico timore | gli insulti a tratti di un destino amaro | che il cuore priva d’ambizioni e sogni […]».
Nel secondo caso è forte la presa di coscienza che la macina del tempo tritura sogni e attese: in “Quattro classici passi…” l’io è attonito perché «[…] a ogni trapasso | e pure ad ogni passaggio di stagione| stranito aspetto di pagar pedaggio | e non esco mai dalla prigione»; in “Deriva (Itacae viae)” risuonano echi malinconici e rassegnati: «[…] più non veste la sua forma | il mio ricordo | Itaca più non ho trovata e mi manca | dicono […] | mi stia ora cercando| per tutti quei mari dove io non sono […]». E questa conclusione rispecchia uno stato d’animo analogo a quello di Giorgio Caproni: «Il mio viaggiare| è stato tutto un restare | qua, dove non fui mai».
La fondatezza delle considerazioni dell’io dialogante con se stesso trova riscontro in un puntuale esame di momenti quotidiani che rivelano aspetti sofferti o laceranti. Ne è significativo esempio il monito contenuto ne “La tetta asustada” (dall’esplicativo sottotitolo “Il latte dell’angoscia”): «[…] L’amore è alimentato dall’amore | e solo odio invece | sa generare l’odio […]».
È però un monito del tutto inefficace come antidoto a perduranti e diffuse tragedie quali le guerre o le umilianti mortificazioni perpetrate a danno della condizione femminile. È quindi inevitabile che poeticamente il gioco si faccia duro, come ne “I vecchi”, stanchi e, proprio per la loro età, colti da sfinimento per «[…] intere sofferte trafile| di stronzate […]».
Alla resa non sembrerebbe esserci scampo. Tuttavia il poeta, conscio del rischio di naufragio nel mare esistenziale, cerca, nel gioco di rimandi tra sé e il mondo, approdi o appigli, mettendocela tutta nella ricerca della possibile via salvifica; ma quale?
Potrebbe essere l’amore, tema presente in molte liriche, con le molteplici sfaccettature che lo caratterizzano.
C’è amore filiale, in quelle scritte in memoria sia della madre (“Che mi hai portato?”, “In certe sere”, “Saluto d’amore”), sia del padre (“Sefinì”) o di entrambi nei versi di “Noi”, con echi struggenti e suggestivi: «[…] Mia madre | che corre la discesa a perdifiato | “Ritorna! – l’hanno visto! – dalla prigionia” | […] | e il treno nella curva lento arriva | […] | è lui!, non sembra lui ma è proprio lì | […] | C’è lei che corre incontro a lui | a me | e pure lui che corre| corre e… m’avvicina […]». […]
Dalla prefazione di Raimondo Venturiello
(poeta e critico)